Nel 1969, l’azienda di elettrodomestici Salamini, a due chilometri dalla città lungo la via Emilia verso Reggio Emilia, è al centro di un lungo conflitto sindacale. Entrata in crisi due anni prima, nel febbraio i vertici dell’impresa dichiarano il fallimento e la risposta degli 860 lavoratori – con l’appoggio dei sindacati – non si fa attendere. La fabbrica è occupata per oltre sei mesi, fino a quando, il 23 agosto, le forze dell’ordine intervengono per sgomberarla. Obiettivo della mobilitazione è spingere il governo all’acquisto dell’azienda da parte dell’Iri. Ad animare la vertenza sono soprattutto nuove figure operaie, per lo più giovani, non ancora inquadrati nelle strutture sindacali, spesso immigrati dal Sud o dai paesi della montagna, animatori di inedite e radicali pratiche di lotta: dai blocchi stradali e ferroviari alle occupazioni temporanee del Consiglio comunale, dell’Unione industriali e delle federazioni di Dc e Psi (i due principali partiti al governo nazionale), fino alla contestazione del Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, alla Fiera di Bologna e alla clamorosa protesta contro la tappa parmigiana del Giro d’Italia, in piazza Duomo. La lotta operaia per la Salamini incide prepotentemente sulla vita cittadina, costringendo tutte le forze politiche a schierarsi. La solidarietà di gran parte dei partiti è evidente quando, dal 7 maggio per diversi giorni, su invito di sindaco e presidente della Provincia, i consiglieri comunali e provinciali si riuniscono in una sorta di seduta permanente all’interno dello stabilimento occupato. La vertenza, comunque, si chiude con lo smantellamento della fabbrica, anche se gli operai vengono riassorbiti in altre imprese e nelle società controllate dagli enti locali. Ciò nonostante, l’esperienza dei lavoratori della Salamini è esempio per altri conflitti sindacali che prendono le mosse di lì a poco, nel caldo autunno del 1969.